La storia di Luca
L’ambulanza del 118, annunciata dalla sua inconfondibile sirena, si ferma davanti all’ingresso. Velocemente i colleghi fanno scendere la barella, continuando a dire al piccolo Luca di stare tranquillo, perché adesso era arrivato dove altri dottori lo avrebbero aiutato a stare bene, mentre io, che ero “gli altri dottori”, cominciavo a realizzare che avrei tradito quella speranza. Luca è un bellissimo bambino di otto anni con due enormi occhi neri. Al suo fianco la madre continua a ripetere che era sceso nel vialetto solo per un attimo, solo per un attimo, col suo nuovo cagnolino avuto per Natale. Solo un attimo, quel botto, quel pianto disperato, la corsa, il sangue. Il mio sguardo ritorna su Luca, sulla sua mano sinistra stretta forte a quella di mamma e sull’altra, quella che vorrei tanto vedere e stringere anch’io, ma che mi appare nella sua amara forma, quella di uno strato di garze punteggiate di sangue a proteggere quello che non si può più proteggere, a salvare quello che non si può più salvare, che semplicemente non esiste più. Così, mentre tutto quello che prevedono le linee guida viene prontamente eseguito come spartito da un’orchestra collaudata, io rimango accanto al piccolo Luca e alla madre, ad accarezzare la sua fronte, a parlare con lui, mentre la tensione sembra smorzarsi per fare posto alla più lucida consapevolezza che mai avrei immaginato negli occhi di un bambino. Occhi che mi dicono che la sua vita è cambiata per sempre, occhi che mi parlano di tristezza, occhi che mi fanno assaporare l’amaro della solitudine di chi è diverso, di chi sarà per sempre “qualcosa in meno” degli altri.