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Sport e Covid: cosa si può fare, che certificato serve, come si ottiene, quali sono gli esami previsti
Turchetta, referente SIP per il tavolo tecnico del ministero: “Aumentate le richieste di certificazione agonistica”
“Il Covid è l’unica malattia che in qualche modo etichetta chi l’ha avuta e ‘costringe’ chi vuole fare attività sportiva a seguire un protocollo di analisi per cercare di capire se possono esserci sequele a distanza della patologia, prevalentemente cardiorespiratorie e ipoteticamente più pericolose”. Parte da qui Attilio Turchetta, Responsabile del Dipartimento Medicina dello Sport dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, per tracciare una panoramica della pratica sportiva in tempo di pandemia. Una pratica attualmente ‘riservata’ a due categorie di atleti: professionisti e agonisti.
“Dopo il periodo di stop totale che abbiamo avuto durante il lockdown, il primo gruppo che ha ricominciato a fare attività sportiva, seguendo sia un protocollo di diagnosi che di follow up, sono stati gli atleti professionisti, ossia solo chi pratica calcio, basket, pugilato e ciclismo. Successivamente si è allargato il campo anche allo sport agonistico- spiega Turchetta- in senso generalizzato. Le competizioni ancora non sono consentite, ma gli allenamenti sì. Le singole federazioni sportive hanno stilato dei protocolli rigidissimi per la ripresa delle attività, pensando non solo alla sicurezza degli atleti ma pure a chi si occupa della pulizia o della manutenzione delle strutture”. E l’attività agonistica “è quella che riguarda la maggior parte della popolazione, coinvolgendo un numero enorme di ragazzi- sottolinea Turchetta- In Italia è proprio l’età pediatrica, infatti, quella che più frequentemente e in maniera più massiccia fa sport a livello agonistico”.
Per praticare attività agonistica è necessario avere un certificato rilasciato dal medico specialista in Medicina dello Sport, quindi un medico che lavora in una federazione, una asl, un ospedale o privatamente. Ma su come ottenere questo certificato si aprono due strade molto diverse tra chi ha avuto il Covid e chi non lo ha avuto: “Per gli atleti che non si sono mai ammalati basta fare la certificazione agonistica standard, quella prevista dal decreto legge del 1982 che regola tutta l’attività sportiva. Lo stesso certificato che si faceva fino allo scorso anno, prima dello scoppio della pandemia”, spiega il medico. “Per chi ha avuto il Covid, invece, abbiamo dovuto avere un atteggiamento prudenziale- precisa Turchetta- perché non conoscevamo la malattia e soprattutto i suoi effetti a distanza”. Per questo il tavolo tecnico istituito presso il ministero della Salute, di cui Turchetta fa parte come rappresentante della Società Italiana di Pediatria (SIP), ha stilato un protocollo che prevede tutta una serie di esami di controllo necessari per poter avere il certificato e quindi poter riprendere a praticare sport. “A qualcuno quello che chiediamo di fare potrebbe sembrare troppo, o inutile e costoso, ma noi che abbiamo il polso della situazione italiana pensiamo che attualmente sia appropriato- sottolinea il referente SIP al tavolo ministeriale- è un numero di esami che al momento pensiamo essere il minimo possibile ma non escludiamo di poterlo ridurre in futuro”.
Per quanto riguarda nello specifico l’infanzia, Turchetta spiega che “seppur i bambini e i ragazzi che si infettano hanno forme meno gravi della malattia da Covid-19, e sembrano essere meno esposti a complicanze, non abbiamo la certezza che sia così. Quindi cautelativamente sono stati stabiliti degli esami per fare un punto sulla loro situazione cardiocircolatoria”.
Cosa prevede il protocollo? “Innanzitutto visitiamo i ragazzi un mese dopo che si sono negativizzati. Considerando che la riammissione in società senza tampone avviene dopo 14 giorni dalla cessazione dei sintomi- spiega Turchetta- pensiamo che possano essere riammessi a fare attività sportiva dopo un tempo doppio, non c’è nessuno che abbia scritto qualcosa in merito, è un’indicazione che viene dalla pratica. Al 30° giorno dunque si fanno una serie di indagini: anamnesi, visita clinica, mini ricerca per capire quale possa essere stato il sistema di contagio (scuola, famiglia ecc.), e poi si va a vedere che sintomi ha avuto il ragazzo. Molto importante- sottolinea il medico- è sapere se ha avuto un’espressione asintomatica o paucisintomatica della malattia, o se ha avuto un decorso diverso, in particolare nel tipo di indagine da fare si tiene conto soprattutto se c’è stata una radiografia con polmonite dimostrata, se il bambino è stato ricoverato in ospedale o in terapia intensiva”. Nel percorso di indagini è prevista la prova da sforzo, “non soltanto per vedere quale possa essere la risposta cardiologica allo sforzo fisico, ma anche per vedere la saturazione di ossigeno durante lo sforzo- spiega il medico dello sport- poi l’ecocardiogramma per verificare se il virus possa aver attivato problemi a livello cardiaco e l’esame spirometrico inerente la funzione respiratoria”. Una volta fatte queste indagini ci sono due possibilità: “Se il ragazzo prima di prendere il Covid era stato già certificato da un altro medico, gli esami fatti post malattia vengono consegnati al genitore che li riporta al medico primo certificatore e lui compila il modulo cosiddetto ‘return to play’. Se, invece, il ragazzo non ha un certificato attivo i medici della struttura che lo esaminano possono emanarlo direttamente”. Turchetta ci tiene a rassicurare sul fatto che “il protocollo sta consentendo di raccogliere moltissime informazioni e da quello che vediamo e sentiamo- dice- non ci sono state complicanze di nessun tipo in età pediatrica. Al Bambino Gesù abbiamo ormai visitato 50 pazienti che hanno avuto il Covid e non abbiamo riscontrato problemi”.
Poi c’è tutto il capitolo delle attività non agonistiche, ossia quelle che possono essere certificate anche dai medici di medicina generale e dai pediatri. “Anche se attualmente lo sport non agonistico non è consentito, il tavolo di lavoro del ministero sta preparando un protocollo che permetta ai medici di poter certificare anche i ragazzi che hanno avuto il Covid. Dal momento che la certificazione richiesta è non agonistica, quindi riguarda un impegno fisico minore, il numero di esami richiesti sarà più snello”.
Turchetta evidenzia che proprio l’impossibilità di fare attività sportiva ha portato a una grossa impennata di richieste di certificazioni agonistiche. “E’ l’unico sistema per poter permettere ai ragazzi di poter fare sport- sottolinea, spiegando che- la definizione di agonista è demandata alle singole federazioni che decidono, tendenzialmente in base a un criterio anagrafico, chi può fare agonismo e chi no. Per esempio per la Federazione Nuoto è agonista l’atleta che ha più di 8 anni, per quelle calcio o basket l’atleta che ne ha più di 12 ecc.. Ora si sta verificando che alcune società sportive richiedano la certificazione agonistica a ragazzi ‘fuori età’ proprio per permettergli di fare sport. Questo- dice Turchetta- non è esattamente regolare, ma pur di non tenerli fermi non ho timore a fare una certificazione agonistica a un bambino che magari ha un anno in meno rispetto all’età prevista dalla federazione, considerando il fatto che non ci sono competizioni. Almeno si muovono, con tutte le precauzioni”. Anche perché lo stop forzato sta avendo delle conseguenze evidenti. “Nelle prove da sforzo che al Bambino Gesù facciamo ai ragazzi che vediamo annualmente, non per problemi di tipo cardiologico, stiamo notando una riduzione di più del 30% rispetto all’anno precedente. In sostanza un ragazzo che l’anno scorso faceva una prova da sforzo che durava 10 minuti perché alle spalle aveva 4-5 mesi di allenamento, ora fa una prova che dura 7 minuti. E parliamo di ragazzi sani, è come se avessero una sorta di motore imballato”.
La pandemia ha di certo tolto tanto all’infanzia. “I ragazzi hanno perso due stagioni- dice con rammarico il medico- e non gliele ridarà più nessuno”. E poi dice “non dobbiamo dimenticarci che c’è anche tutta una fascia di popolazione che sono i bambini con malattie croniche che stanno pagando il triplo. Penso ai bambini che hanno avuto un intervento di cardiochirurgia o un problema oncologico, con il diabete, un’asma bronchiale importante, o ancora malattie quali la fibrosi cistica ecc.. Sono tutti bambini che non solo hanno necessità di fare sport, ma stanno meglio quando fanno sport. Questi ragazzi stanno pagando un prezzo veramente importante”, conclude Turchetta.