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I traumi psicologici da disastri
Una ferita che colpisce la mente stravolgendo la routine del quotidiano
di Pietro Ferrara, Chiara Di Sipio Morgia, Margherita Zona
Articolo pubblicato su Pediatria numero 8-11 – 2022, pag. 20
Trauma è la morte di una persona cara, trauma è il disastro naturale, trauma è l’abuso sessuale… ma allora, come può essere meglio definito? La parola “trauma” deriva dal greco e vuol dire “ferita”. Il trauma psicologico è una ferita che colpisce la mente stravolgendo la routine del quotidiano, sia nel modo di vivere che in quello di vedere le cose, determinando un impatto negativo sulla persona che lo sperimenta e sulla sua quotidianità. Si potrebbe parlare per ore, anzi per giorni, delle diverse cause di traumi, ma in questo particolare momento storico, sorge spontaneo prendere in considerazione i disastri come causa di traumi psicologici. Quando si pensa a un disastro, potrebbe emergere nella nostra mente il ricordo dell’attacco terroristico dell’11 settembre 2001, oppure dello tsunami avvenuto nell’Oceano Indiano nel 2004, o anche delle immagini delle terapie intensive sature di persone intubate durante la pandemia da Covid-19 o ancora, più recentemente, di bambini e anziani che abbandonano le proprie case in cerca di un posto sicuro nella così vicina Ucraina. Che cosa accomuna queste situazioni che, ad un occhio non attento, potrebbero sembrare così differenti tra loro? Certamente l’impatto negativo sugli individui che, direttamente o indirettamente, ne sono vittime. In particolare, la categoria sicuramente più vulnerabile è quella dei bambini.
L’esposizione al trauma è un elemento chiave nello sviluppo, nella psicopatologia e nel funzionamento del bambino. È pertanto necessario sapere che esistono esperienze traumatiche che hanno un impatto a breve e lungo termine nella vita del bambino e che bisogna mettere in atto strategie di intervento precoce e concreto.
Trauma indiretto
Mentre nel passato l’esperienza del trauma ricadeva esclusivamente sul diretto interessato, attualmente, con l’avvento delle nuove tecnologie comunicative, si ripercuote anche su chi non ne è interessato in prima persona e che assiste passivamente dalla sua “sicura” dimora, determinando un impatto negativo su un numero maggiore di persone, in particolare di bambini. È rilevante l’impatto che immagini e notizie di violenza possono avere su individui così fragili e vulnerabili, in quanto mancanti delle abilità e dell’esperienza utili a gestire informazioni difficili. Inoltre, i bambini hanno concetti diversi di salute e di disastro, rispetto agli adulti, in relazione al loro sviluppo cognitivo, emozionale, sociale, psicologico e fisico. Un bambino, se lasciato solo di fronte ad una notizia o ad un’immagine, si trova nella condizione di doverla interpretare e metabolizzare autonomamente, con il conseguente rischio che fallisca nell’integrare l’informazione ricevuta dal mondo esterno e nel formulare una strategia psicologica di adattamento. I media pubblicano notizie, video e immagini di eventi traumatici, che possono avere un ruolo nel generare nei giovani un distress emotivo e psicologico, soprattutto se questi ultimi non hanno la possibilità di confrontarsi con la propria famiglia. I bambini si affidano ai caregiver per affrontare gli eventi stressanti, hanno bisogno di essere rassicurati e di ricevere spiegazioni plausibili per accogliere eventi spiacevoli e insoliti. Dal punto di vista pratico, proteggere il bambino dalle notizie provenienti dal mondo esterno è pressoché impossibile. La rapida trasmissione dell’informazione riguardante disastri nazionali e internazionali dovrebbe essere veicolata da istituzioni locali come le scuole con l’obiettivo di offrire un’adeguata protezione, un aiuto e soprattutto strategie di “coping”, cioè di adattamento, ai bambini. Le reazioni dei bambini a eventi stressanti presentati dai media sono diverse e sono correlate a fattori individuali ed esterni, in particolare all’età, alle esperienze pregresse e al livello di sviluppo del bambino.
A parità di esposizione, molti sviluppano nel tempo condizioni psicologiche o psichiatriche. Un significativo numero di bambini, però, sperimenterà effetti a lungo termine, come scarso rendimento scolastico, disturbo post-traumatico da stress (PTSD), depressione, ansia, lutto e disturbi del comportamento. Dopo l’attacco terroristico dell’11 settembre 2001, studi hanno rilevato che giovani ragazzi hanno sviluppato reazioni acute allo stress e PTSD in seguito all’esposizione cumulativa dell’evento tramite i media, anche se l’attacco non aveva coinvolto un loro conoscente. I bambini possono reagire all’esposizione di immagini e notizie stressanti sviluppando resilienza e strategie di coping, facendo perno sulla propria capacità di resistere, assimilare, adattarsi e riprendersi dagli effetti di una minaccia in modo tempestivo ed efficiente. Ma la resilienza può essere insegnata? Sicuramente non è un comportamento ereditato, potrebbe quindi essere correlato a fattori individuali, come la presenza di almeno una relazione stabile con un parente o un caregiver, capace di dare supporto. Per i bambini garantire questo tipo di relazioni è fondamentale in quanto forniscono reattività, struttura e protezione preservandoli dall’interruzione dello sviluppo.
Trauma diretto
Eventi come l’attentato di Oklahoma City, l’attentato terroristico a New York dell’11 settembre, le guerre in Afghanistan, l’attuale situazione in Ucraina, espongono centinaia di migliaia di bambini ad attività belliche dirette e alle loro conseguenze. Si tratta di migliaia di migranti e rifugiati provenienti da background culturali differenti, che non sono solo vittime di guerra, ma anche di disastri economici, capricci politici, in fuga dalla loro casa nella speranza di trovare un presente e futuro migliori. È anche questo stesso processo migratorio, ovvero di abbandono del Paese di origine e di nuovo inizio in un Paese sconosciuto, che può determinare un grave impatto psicologico su figli e genitori. Indipendentemente dalle caratteristiche specifiche di una determinata guerra o atto di terrore, tali situazioni determinano distruzione, dolore e morte che influenzano lo sviluppo psicosociale dei bambini e le loro aspettative sulla vita futura. Come disse Papa Francesco, “… ogni guerra lascia il mondo peggiore di come lo ha trovato…” e questo è particolarmente vero per il mondo dei bambini. I bambini sono individui dipendenti, che necessitano della cura e dell’attenzione degli adulti a cui sono affidati. Questi legami, durante la guerra, sono facilmente soggetti a rottura o a crisi, a causa della perdita delle persone care, dei bruschi cambiamenti della routine quotidiana, della convivenza con adulti oppressi dall’estrema preoccupazione di proteggere la propria famiglia e di sostenerla psicologicamente e materialmente, della non disponibilità affettiva dei genitori che si ritrovano in una condizione di depressione e preoccupazione. Un bambino catapultato in una situazione di guerra e violenza perde opportunità: in primis, viene meno la possibilità dell’istruzione in quanto è costretto a spostarsi in campi di rifugio trascorrendo diverso tempo in circostanze di miseria e insicurezza, con l’impossibilità di proseguire un percorso scolastico di istruzione e di crescita personale stabile; viene meno l’opportunità di creare e mantenere una vita sociale. La situazione è ancora più complessa nei bambini con disabilità, cognitiva e/o fisica, per cui viene meno la possibilità di essere gestiti adeguatamente.
Tra i rischi a breve termine, c’è il rischio di morire, di ferirsi, di acquisire una disabilità, di ammalarsi, di essere soggetto a tortura, rapimento e/o violenza sessuale. La sofferenza psicologica che si genera, a lungo termine, può perdurare nel PTSD. Le perdite, l’interruzione della propria vita causano tassi elevati di depressione e ansia nei bambini colpiti dalla guerra. Questi impatti possono essere prolungati dall’esposizione a ulteriori privazioni e violenze nella condizione di rifugiati. Si ha anche un impatto morale e spirituale, dato dall’indifferenza o dalla cattiveria avvertita da parte del mondo circostante che può generare nel bambino un senso di perdita di significato della propria esistenza nel mondo. In risposta, il bambino potrebbe reagire modificando la propria struttura morale, mentendo, rubando o vendendosi pur di sopravvivere. Un altro aspetto importante è il rischio di perdere la propria comunità e la propria cultura durante la guerra. Una possibilità da non sottovalutare è il reclutamento come bambini soldato, con conseguenze devastanti per la loro identità. Tra i diversi possibili eventi traumatici, si pensi anche ai disastri naturali, che così come i conflitti armati, richiedono una risposta umanitaria, in particolare focalizzata sulla protezione dei bambini. Da uno studio che ha valutato la violenza familiare in due situazioni quali la guerra civile dello Sri Lanka e lo tsunami avvenuto nell’Oceano Indiano nel 2004, è emerso che l’esposizione alla guerra si associava a violenza nei confronti dei bambini, mentre nel caso dello tsunami questo comportamento non era così evidente. Durante il conflitto, la presenza di persone armate rappresenta un rischio diretto per la violenza, che in genere non esiste in ugual modo durante i disastri naturali. Una revisione sistematica ha individuato cinque pathways che collegano i disastri naturali e la violenza contro i bambini: i cambiamenti nella supervisione e nell’accompagnamento dei bambini correlati alla modificazione ambientale ed anche la separazione dei bambini; la trasgressione dalle norme sociali nel comportamento post-disastro; lo stress economico; l’adattamento negativo allo stress; le condizioni di vita precarie.
L’evidenza suggerisce che i conflitti armati e i disastri naturali possono agire in modo diverso per produrre diversi modelli di violenza; e che alcuni comportamenti adattativi positivi possono moderare o prevenire con successo la violenza dopo i disastri naturali. Tra gli eventi traumatici che possono accadere nella vita di un bambino, bisogna menzionare anche la perdita di un genitore, con effetti a breve e lungo termine sullo stato di salute. La perdita di un genitore è un evento stressante che gioca un ruolo negativo per lo sviluppo fisico e mentale del bambino se i meccanismi di adattamento come la resilienza falliscono nello stabilire un equilibrio tra lo stress e la gestione dello stress. La perdita improvvisa di un genitore innesca sintomi di tristezza, ansia, incapacità a concentrarsi, scarso controllo degli impulsi, episodi di dolore psicosomatico, ecc. Questi sintomi sono riassunti dal termine “bambini vulnerabili con nuove morbilità”. Se i sintomi del lutto e di adattamento ad esso vengono trascurati e non trattati, il danno e la sofferenza vissuti dagli individui durante l’infanzia possono persistere e amplificarsi durante la loro vita adulta. Anche in tale contesto, il pediatra ha un ruolo, ovvero cercare di implementare programmi di prevenzione e di supporto sociale per la promozione della salute. Tra gli eventi più recenti è inevitabile citare la pandemia da Covid-19 che ha portato all’attuazione di misure di isolamento e quarantena, con impatto sia sulla salute fisica che mentale delle persone e, in particolare, dei bambini. È aumentato quindi il tempo trascorso davanti al televisore o al computer/videogames con un maggior rischio di incorrere in dipendenze, adescamento online, cyberbullismo e disturbi mentali quali depressione, ansia, comportamenti di evitamento e PTSD.
Epidemiologia
Diversi studi hanno stimato la prevalenza di problemi di salute mentale a seguito di disastri, ma pochi hanno considerato la prevalenza dell’esposizione ai disastri. Nel 1995, il National Survey of Adolescents (NSA), finanziato dal National Instituce of Justice americano, ha preso in esame, tramite interviste, un campione di 4023 adolescenti tra i 12 e i 17 anni per ottenere informazioni su esperienze di vittimizzazione, abuso di sostanze, comportamenti criminali. Analizzando le informazioni fornite dal campione è emerso che circa un quarto degli adolescenti è stato coinvolto in un disastro naturale nella propria vita, tra i quali circa 1 su 3 temeva che sarebbe stato gravemente ferito o ucciso nell’evento. Questi dati sono in linea con quelli di un ampio campione di adulti, che ha prodotto una stima di prevalenza nel corso della vita del 22% per l’esposizione ad almeno 1 disastro. Dal 2000 il numero dei bambini che vivono nelle zone di conflitto è in continuo aumento. Gli ultimi dati del 2019 hanno decretato che quasi due terzi dei bambini nel mondo vivevano in un Paese in preda al conflitto. Circa 426 milioni di bambini, più di 1 su 6, vivevano a meno di 50 km da zone in cui veri e propri combattimenti hanno preso luogo. Secondo le stime, nel 2019 circa 725 milioni di bambini (di età compresa tra 0 e 18 anni) vivevano in Paesi pacifici, mentre il resto, 1,61 miliardi di bambini (il 69% di tutti i bambini del mondo), vivevano in Paesi colpiti da conflitti. La migrazione forzata e l’allontanamento traumatico dal luogo di origine possono essere considerati un indicatore di estrema esposizione ad un disastro. L’International Displacement Monitoring Centre (IDMC) stima che i disastri naturali hanno causato 18,8 milioni di nuovi spostamenti nel 2017, mentre i conflitti armati 11,8 milioni.
Recentemente, l’attenzione di tutto il mondo è stata catturata dalla guerra scoppiata in Ucraina e, come evidenzia l’UNICEF, la vita di ben 7,5 milioni di bambini è a rischio. Ogni giorno, questi bambini rischiano di essere uccisi o feriti, e tutti loro sono soggetti a un traumatismo psicologico esercitato dalla violenza che li circonda. L’ONU afferma che dall’inizio dell’invasione russa in Ucraina, quasi 10 milioni di persone sono state costrette ad abbandonare la propria casa: stiamo parlando di quasi un quarto dell’intera popolazione ucraina.
Effetti del trauma
I bambini hanno difficoltà a verbalizzare le loro emozioni, esprimendole in genere attraverso irrequietezza, agitazione, scoppi di rabbia, paura del buio, problemi di sonno, incubi e paura dell’abbandono. Possono anche riferire sintomi fisici come mal di testa o disturbi gastrointestinali. La fascia d’età è una discriminante fondamentale. I bambini al di sotto di 6 anni in genere sperimentano il senso di colpa ed elaborano idee come per esempio: “se fossi stato un bambino più bravo e avessi ubbidito a mamma, questa cosa brutta non sarebbe mai successa”, ciò perché le informazioni presentate dai media o discusse dai genitori spesso sono troppo complicate da comprendere per loro, contribuendo così alla loro confusione. Presentano spesso problemi di sonno, correlati alla preoccupazione che possa accadere qualcosa ai propri cari mentre dormono.
Dopo i 10-11 anni, essendo concreti nel loro pensiero ma non riuscendo pienamente a comprendere tali eventi, rispondono con comportamenti regressivi quali l’enuresi o la suzione del pollice. Inoltre i bambini di questa età possono sviluppare sintomi fisici come perdita dell’appetito, dolori addominali, cefalee, vertigini. Spesso presentano anche problemi in ambito scolastico come incapacità di concentrazione, rifiuto di frequentare la scuola, iperattività.
Gli adolescenti, invece, avendo acquisito la capacità di astrazione, pongono maggiore attenzione a tematiche quali religione ed etica, che influenzano la loro risposta ad eventi traumatici. Possono reagire ritirandosi da amici e famiglia o minimizzando le loro preoccupazioni acquisendo un atteggiamento che si traduce in un costante “va tutto bene”. Possono comparire rabbia e desiderio di vendetta. Se particolarmente alienati, possono essere influenzati da organizzazioni terroristiche. Per quanto riguarda gli effetti a lungo termine del trauma, particolare rilevanza riveste il PTSD. La prevalenza stimata tra i giovani del PTSD correlato alla guerra è compresa tra l’8% e il 75%. Uno studio su bambini palestinesi che vivono nella striscia di Gaza ha rilevato che il 32,7% ha sviluppato sintomi di PTSD con necessità di trattamento e il 49,2% ha manifestato sintomi di PTSD moderati. Per quanto riguardo gli effetti della pandemia da Covid-19, esiste la cosiddetta “coronafobia”, cioè la paura del Covid-19, che ha accentuato i sintomi dell’ansia in chi già ne era affetto, determinando l’eccessivo lavaggio delle mani, l’estrema cautela nelle misure di distanziamento sociale e la conseguente insorgenza di sentimenti di frustrazione, irritabilità, riduzione nelle attività all’esterno ed eccessivo uso del telefono. Cambiamenti nella sfera comportamentale si sono verificati soprattutto nei bambini affetti da disturbi dello spettro autistico (ASD) e disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD). I bambini affetti da ASD più frequentemente non riuscivano a eseguire semplici istruzioni con peggioramento delle loro capacità comunicative; i bambini con ADHD hanno invece presentato maggiore rabbia e incapacità nel vivere la routine quotidiana. In generale, le restrizioni sociali hanno determinato la perdita del contatto quotidiano con i pari e l’utilizzo dell’apprendimento online ha creato una nuova realtà nell’istruzione, con conseguente incremento del tempo trascorso davanti allo schermo. Ciò però non si è fermato al solo ambito educativo, bensì c’è stato un utilizzo eccessivo dei social media, delle piattaforme di gioco online e di visione di film.